Il dollaro forte sta facendo aumentare l’appetito per acquisizioni all’estero. Se gli Stati Uniti restano una delle economie più robuste del pianeta, la Cina è ormai emersa come sua principale concorrente.
Entrambi i Paesi, per differenti ragioni, sono legati alle quotazioni del dollaro e, quando questa valuta si rafforza, tendono a espandersi all’estero. La dilatazione non riguarda tanto le esportazioni (che, anzi, diventano più difficili) quanto l’acquisizione di imprese straniere.
Un dollaro in salita, in effetti, può rendere convenienti operazioni di M&A (Mergers and Acquisitions) che in precedenza non risultavano agevoli.
A febbraio 2015, per esempio, Ball Corp. un produttore di lattine per bevande, ha rilevato per quasi 7 miliardi di dollari l’inglese Rexam Plc, il 7% meno di quanto l’acquisizione sarebbe costata un anno prima (a parità di valutazione del titolo Rexam, chiaramente1).
Se vogliamo casi simili non mancano anche su scale dimensionali nettamente inferiori. Per esempio, il 19 dicembre 2014 una società della Virginia siglò una lettera d’intenti per il possibile ingresso nel capitale di una PMI ipotizzando un investimento di 3 milioni di euro. Nel corso della due diligence emersero alcune criticità sulla valutazione del magazzino della società target eppure gli imprenditori americani non batterono ciglio e non chiesero aggiustamenti del prezzo. Perché mai? Quando vennero in Europa per firmare l’acquisizione ci confermarono che la loro tranquillità era in parte motivata dall’apprezzamento del dollaro. In effetti il 5 giugno 2015, quando versarono i 3 milioni di euro pattuiti, esultarono in quanto il loro investimento espresso in dollari era calato dell’8%, con un risparmio superiore ai 240 mila dollari. Nella fattispecie, inoltre, l’apprezzamento del biglietto verde aveva stimolato le esportazioni della società europea e i suoi ricavi su base annua erano saliti da 12 milioni di euro a 14.
Gli effetti indiretti di un dollaro forte
Secondo Bloomberg2, il rafforzamento del biglietto verde sull’euro significa che, nell’arco di un anno, la liquidità in capo alle società dell’indice S&P 500 si è rivalutata di 25 miliardi di euro. Tanta cassa in più da investire in Europa. Dove il terreno è favorevole. La ripresa lenta o inesistente di molti Paesi (Italia in primis), le difficoltà delle finanze pubbliche di altri (Grecia), la fuga di capitali (Svizzera), il peggioramento della competitività internazionale seguito alla recessione dell’Eurozona (che ha colpito molti settori anche di apparenti colossi come la Germania o la Francia, per esempio nell’elettronica dove i fallimenti sono stati numerosi), hanno depresso le quotazioni su molte Borse e soprattutto le valutazioni delle PMI non quotate. Un universo industriale in cui le occasioni non mancano, con imprese leader di nicchia per competenze tecnologiche, sistemi di produzione, design o marchi.
Le società americane, che hanno beneficiato di alcuni anni d’intensa ripresa, hanno la possibilità tanto di pagare meno (in dollari) un operatore estero, quanto di spiazzare altri pretendenti locali con offerte difficilmente raggiungibili.
Il rafforzamento del dollaro non è inoltre l’unica occasione per cui americani, cinesi e arabi stanno avviandosi allo shopping in Europa. L’aspetto valutativo, a sua volta, ha un peso rilevante nel rendere interessante i target europei. Molte società quotate a Wall Street, infatti, mostrano multipli di Borsa maggiori rispetto ai concorrenti europei3: ciò significa che un’impresa americana potrebbe offrire proprie azioni come una forma di pagamento appetibile. Nel richiamato caso di Rexam, Ball Corp. ha saldato due terzi del prezzo di acquisto consegnando azioni. In queste situazioni siamo in presenza di un arbitraggio tra multipli che potrebbe avere un’ulteriore conseguenza: se al termine dell’acquisizione la partecipata europea fosse valutata secondo l’ottica statunitense, probabilmente l’acquirente otterrebbe un automatico incremento di valore rispetto al prezzo pagato.
Un ulteriore incentivo agli investimenti statunitensi deriva dalle disponibilità liquide che molti colossi statunitensi vantano all’estero.
La casa farmaceutica Pfizer, per esempio, genera metà del suo fatturato fuori dagli Stati Uniti e l’anno scorso cercò di acquisire la britannica AstraZeneca al fine di cambiare la propria sede fiscale e ottenere un accesso agevolato alle sue risorse finanziarie offshore senza dover sostenere gli oneri di rimpatrio. Una situazione simile si verifica per altri operatori del settore farmaceutico, come pure per diverse multinazionali: a marzo 2015, secondo Bloomberg, 307 delle maggiori imprese USA disponevano all’estero di quasi 2.000 miliardi di dollari. Un fiume di denaro che sovente è conveniente investire nei Paesi in cui si trova o in altre nazioni estere, piuttosto che riportarlo in America per restituirlo agli azionisti sotto forma di dividendi straordinari, magari dopo aver pagato ingenti tasse.
Il futuro
L’attività di M&A resta su livelli cospicui, superiore ai primati conseguiti nell’eccezionale 20074. Stiamo assistendo a una vera esplosione, soprattutto del mercato statunitense, spinta da società e gruppi industriali che, a fronte di fatturati e utili stagnanti, partono alla ricerca di nuove vie per crescere.
Le imprese targate USA dispongono mediamente di molto denaro e di un agevole accesso a finanziamenti convenienti. Ciò è vero per i colossi5 ma anche per le numerose PMI a stelle e strisce.
Nell’immediato ci si può quindi attendere che la richiesta di imprese europee di qualità cresca, con una domanda proveniente da oltre Atlantico, come pure da altre aree del mondo6. Certo predire l’andamento valutario nel medio periodo ha sovente le caratteristiche della divinazione piuttosto che della scienza esatta. Molti analisti e operatori sono però convinti che il dollaro si rafforzerà ancora per una combinazione tra la crescita dell’economia USA (che si attendono sarà maggiore rispetto alla media mondiale) e il rialzo dei tassi che la Fed dovrebbe realizzare, cui probabilmente si aggiungerà la riduzione del costo del denaro da parte della Banca Centrale Europea a livelli record, la difficoltà di diverse banche europee di aumentare gli impieghi per conseguire i limiti dettati da Basilea III, nonché il proseguimento di tensioni geo-politiche legate alla questione ucraina, al Medio Oriente e all’immigrazione.
Se il dollaro dovesse crescere ancora, il flusso di acquisizioni transatlantico potrebbe a sua volta espandersi, particolarmente qualora questo fenomeno non fosse attribuito a un’incertezza circa le prospettive dell’Eurozona7.
Come è possibile attrarre un investitore estero? Riconoscendo che le considerazioni valutarie o quelle sugli arbitraggi dei corsi azionari non sono dirimenti nella decisione del possibile acquirente. Ciò che realmente conta sono le ragioni di fondo per cui si punta a una società: le prospettive di crescita, la disponibilità di un portafoglio strategico di clienti, tecnologie, personale e fornitori solido e di qualità, dei dati finanziari affidabili (non necessariamente positivi), la facilità d’integrazione culturale e operativa tra le entità coinvolte, la possibilità che dall’acquisizione derivino sinergie (non solo di costo).
Quando i fondamentali ci sono, quando si è preparati per negoziare queste complesse operazioni internazionali, quando esiste una logica strategica sottostante alla possibile acquisizione, l’acquirente sarà pronto a decidere se la valutazione del target è ragionevole e se può permettersi di pagarla. Magari a “prezzo di saldo” se al momento del closing l’euro sarà sceso…